Gli eventi culturali visti dai giovani delle scuole superiori

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Premio von Rezzori / Firenze - page 2

Siamo tutti sulla stessa barca: bisogna imparare a condividere

Intervista a Raffaele Palumbo

Stamattina, dopo la breve conferenza in onore del libro di Dinaw Mengestu, dove egli stesso è intervenuto, abbiamo chiesto al giornalista Raffaele Palumbo di poterci rilasciare un’intervista.

Che cosa le ha lasciato questo libro a livello personale e come si è sentito una volta terminata la lettura?

RP: La cosa più bella è questo necessario incontro tra persone che noi amiamo chiamare ‘diversi’, dimenticando che siamo tutti un evento unico nella storia dell’umanità e che siamo tutti diversi per definizione. E anche la difficoltà di costruire una storia come dire d’ “amore” tra persone di diversa provenienza, diversa cultura, diverso status economico, diverso modo di stare al mondo, diverse religioni, diverso modo di mangiare, di vestire, ecc… E anche attraverso quella storia d’amore noi per certi versi –come dire- ci rendiamo conto della inevitabilità [scandisce ampiamente] dello stare insieme. Noi cerchiamo la separazione, i muri, gli inni nazionali, i passaporti, i fili spinati e non ci rendiamo conto; immaginiamoci su una barca e su questa barca c’è quello del ponte superiore che esibisce il passaporto per passare al ponte inferiore: allora se la vedete così vi rendete conto e tutto ciò vi fa sorridere poiché ci accorgiamo di quanto sia ridicolo. Noi non abbiamo un’altra scelta che non sia condividere questo pianeta, perché non ne abbiamo altri e questa in realtà è una grande fortuna; e questo libro ci ricorda che il mescolarsi, il muoversi è ciò che fa girare il mondo. Paradossalmente, potremmo dire che se le persone smettessero di muoversi il mondo smetterebbe di girare e questo è una delle cose meravigliose che questo libro ci racconta.

Come si è avvicinato al mondo del giornalismo?

RP: La cosa che ci salva è raccontarci le storie. Ciò che affossa il giornalismo è il non raccontarle. Noi non raccontiamo più le storie, raccontiamo i numeri: “morte 32 persone nel canale di Sicilia…” abbiamo tolto l’umanità alle persone. Questo romanzo ci dà la possibilità di raccontare delle storie, narrando di persone, mentre noi trattiamo di numeri, stereotipi, cose astratte. Un grande narratore, un grande giornalista che si chiamava Capuceschi diceva –parlando di giornalisti- che “il buon giornalista non può essere cinico, perché non è adatto a questo mestiere, perché non è possibile raccontare la vicenda di qualcuno senza aver vissuto un pezzetto della sua storia”. Allora il raccontare le storie della gente, delle persone, belle, brutte, è l’unica strada di salvezza ed è l’unica strada per cercare di stare insieme, di generare comunità e per questo comunicare nel senso etimologico, cioè mettere in comune e non vivere accoltellandosi alle spalle.

Nel singolo, nessuno direbbe mai ‘io discrimino, io sono razzista’, però quanto ognuno di noi, vedendo l’Africa disegnata così drasticamente ridotta sulla cartina, coi suoi stati tracciati col righello, può davvero considerarsi ‘pulito’?

RP: Puliti poco. Nel senso che nessuno di noi è pulito finché non ci guardiamo allo specchio. Vediamo una tragedia e continuiamo la nostra vita voltandogli le spalle, finché non rinunciamo a qualcosa, perché vogliamo la macchina da tremila di cilindrata, il petrolio, mangiare otto volte al giorno, vogliamo tutto in sostanza. Così non si può sentire pulito colui che disegna la cartina ‘gerarchica’ né possiamo noi che andiamo a fare la spesa comprando le banane ad un prezzo ignominiosamente basso, perché vogliamo mangiare cinquanta banane al giorno, non ce ne basta una e poi muoiono tutti di infarto a cinquant’anni per le cosiddette ‘malattie del benessere’. Tutto torna lì: ognuno deve portare avanti la propria rivoluzione individuale, lì sta il cambiamento. Terzani diceva: “Il guru è dentro di te. La rivoluzione è dentro di te.” Se impariamo a stare al mondo in modo tale da essere ogni giorno consapevoli del fatto che abbiamo rispettato questo pianeta, che abbiamo vissuto in modo sostenibile, rispettando i nostri simili –vicini o lontani che siano- allora abbiamo fatto la rivoluzione dentro di noi. Se invece hai inquinato, iperconsumato, il Pianeta alla fine ne risentirà: perché è un sistema chiuso. Niente si crea, niente si distrugge. E’ un gioco a somma zero, se io mangio dieci, qualcun altro mangerà uno. E ciò avviene non perché non ci siano risorse, ma perché abbiamo creato un sistema iniquo. Abbiamo la possibilità di produrre genere alimentari per il doppio della popolazione mondiale, ma al contempo un miliardo di persone muore di fame. Per cui ciascuno faccia la propria parte.”

Carlotta Baglivi, Federico Balzani

Un libro “sotto mentite spoglie”

Tutti i nostri nomi raccontato dai recensori del Liceo Capponi

In questo mattino di Giugno, il giorno del canto del cigno del ‘Premio von Rezzori’, abbiamo avuto un’amabile conversazione con delle ragazze del Liceo Capponi, che sono state selezionate per recensire il libro Tutti i nostri nomi di Dinaw Mengestu. Il romanzo è un abilissimo intreccio tra due storie, inconciliabili temporalmente ma inevitabilmente connesse: all’inizio della vicenda, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, si vedono due giovani ugandesi – Isaac e Langston- che si battono per il cambiamento nel loro paese, poi, durante la narrazione, abbiamo un’ellissi temporale (finemente inserita tra un capitolo e l’altro, cambiando repentinamente i punti di vista), alla fine della quale ritroviamo Langston che, separandosi dalla causa di Isaac, si è trasferito negli USA ed ha intrapreso una relazione con Helen, narratrice degli eventi.
Questa relazione, che stordisce leggermente per la repentinità con la quale avviene, risulta a tratti vuota –racconta una delle ragazze- tratta di una donna che ha scelto Langston più per paura della solitudine che non per purezza di sentimento. Così Helen si renderà conto che il muro invalicabile formato dai segreti di Langston le rende impossibile continuare ad amarlo come vorrebbe; questo passaggio è stato sottolineato molto dai lettori in quanto, in esso stesso, quasi si riesce a percepire il dolore e l’ansia che traspaiono da questa tormentosa, quanto anche tormentata, relazione. Segno di ineluttabile maestria dell’autore.
Il libro però si presenta ‘sotto mentite spoglie’, perifrasi scelta da una delle recensitrici, la quale ci fa notare che esso si introduce al recensore come una lettura tranquilla, ma è un abisso di temi profondissimi, una nassa che ti cattura e risucchia in un vortice di parole e concetti, intrigante quanto anche spiazzante e sincero. Inoltre, molti dei lettori avevano immaginato che lo scrittore avesse vissuto in prima persona gli eventi narrati, che avesse provato quelle emozioni potentissime e che fosse, in qualche modo, un po’ all’interno di Isaac stesso. Invece, come egli stesso ci ha rivelato durante la conferenza di questa mattina, il romanzo è basato su eventi che egli ha appreso durante la sua straordinaria carriera di giornalista da dei rivoluzionari quindicenni nel Darfur. Ovviamente, si è preso delle licenze poetiche.
Nonostante le tematiche fortemente delicate, lo scrittore (attraverso Langston) “cerca sempre di trovare una tranquillità, anche nel caos” sentenzia una delle ospiti, descrivendo le tipiche azioni del personaggio: egli legge continuamente anche quando la situazione sembra precipitare, o anche solo nei momenti di noia. E così che ‘Dickens’ diventa uno dei numerosi appellativi affibbiati al giovane, data la sua parlata ottocentesca, derivatagli dalla lettura continua di questi romanzi.
Un’altra caratteristica di Mengestu, spiega complimentandosi una delle ragazze, è che “si sa concentrare sugli spetti fondamentali dei personaggi”, nel senso che non si dilunga in inutili e pedanti descrizioni fisiche ma omaggia i singoli personaggi con ampie disgressioni psicologiche, come per esempio nel personaggio di Helen della quale non conosciamo le caratteristiche fisiche, ma di cui certamente conosciamo ogni pensiero.
Unica nota dolente, che come un filo conduttore si è profilata durante tutto il premio, pare essere l’organizzazione del premio ‘Giovani Lettori’ che, non poche volte, a quasi portato i recensori a rinunciare per via delle continue difficoltà amministrative. Ci auguriamo che in futuro questi problemi siano risolti, così da far in modo che questo arduo compito risulti più facile per i recensori del domani.

Carlotta Baglivi, Giulia di Giorgio, Federico Balzani e Tommaso Becattini

La letteratura fine a se stessa?

Intervista a Andrea Bajani

Lei in un’intervista ha detto che ciò che manca al motore dei nostri giorni nostri è che alla letteratura venga dato uno spazio sempre più marginale ed esclusivamente di intrattenimento e di colore. Pensa che eventi come questo, al quale partecipano anche molti ragazzi, sia un modo per riempire questo pezzo mancante?

Il problema della letteratura è che ha bisogno di spazio. È come se le fosse riservato uno spazio piccolissimo che deve essere inserito tra i mille impegni della giornata. Iniziative come queste, ovvero i festival e gli eventi letterari, sono da un lato meritevoli perché attirano l’attenzione su qualcosa che ha bisogno di attenzione, ma allo stesso tempo vanno ad inserirsi in un “mercato” dell’intrattenimento. Dell’intrattenimento di alto livello, naturalmente, ma fanno sempre parte del “Cosa facciamo stasera? Andiamo al cinema, a prendere un cocktail, a prendere un aperitivo o a vedere uno scrittore che parla?”.
Quindi il rischio di questi eventi è che diventino una sorta di “spettacolarizzazione”, che diventino uno dei tanti canali della televisione. Ovviamente il punto, e in particolare nel Premio Gregor von Rezzori è questo che conta, è la qualità. Questo è un festival che garantisce la non commercialità di ciò che propone. Non vengono premiati gli autori che noi siamo abituati a vedere in televisione, ma qualcosa di diverso. Quindi per forza di cosa chi viene qua deve crearsi un vuoto per entrare in contatto con delle esperienze letterarie di altissimo livello.

In un’altra intervista lei ha detto che il rapporto tra dei ragazzi con la letteratura è viziato da un’impostazione scolastica, giustamente a mio parere. Se lei dovesse spiegare ad un ragazzo che la letteratura non è solo quella che noi studiamo e da cui dobbiamo imparare che però percepiamo distante da noi, ma può appartenerci e può essere un mezzo intimo per analizzare la nostra personalità, come lo spiegherebbe?

Prima di tutto bisogna dire che leggere non è obbligatorio. Io non penso che la letteratura sia l’unico mezzo per farsi delle domande o per raggiungere chissà quale consapevolezza di sé, ce ne sono moltissime: quindi prima di tutto bisogna sgomberare il campo dall’equivoco che se non si legge siamo superficiali. Ci sono persone che non hanno mai aperto un libro ma che hanno una profondità assoluta: il punto è fare dei pensieri grandi. In secondo luogo, penso che la letteratura e l’adolescenza siano due luoghi molto simili. Sono dei luoghi in cui ci si trova ad avere a che fare con delle enormi contraddizioni, con le emozioni dai segni più opposti, dall’allegria alla depressione. Credo che si possa dire solo questo ad un ragazzo. Ed un ragazzo ha tutto il diritto di poter essere affascinato da questo luogo, o di dirsi “basto io”. Quanto alla scuola, non credo che esista nessuna ricetta per far venir voglia ad un ragazzo di leggere. L’unica cosa che si può passare ad una persona è l’effetto che fa a te. Prendiamo due bambini che giocano, un bambino vuole il gioco dell’altro: ma tendenzialmente non vuole solo il gioco dell’altro, ma vuole gli occhi che ha l’altro bambino quando gioca. Quindi l’unica cosa che si può tentare è un contagio. Ci sono insegnanti noiosissimi, ma che hanno una tale passione per ciò che insegnano, che magari può passare a uno o due dei suoi studenti. Questo è quello che conta, non solo con gli insegnanti ma anche con i genitori e i figli: il fatto di aver davanti qualcuno vero.

Parlando di Cartarescu, lo scrittore nella conferenza ha descritto il suo tempio della letteratura: al primo piano ha posto la narrativa, al secondo la poesia e al terzo le visioni. In cima a questo tempio Mircea ha posto lo scrittore che per lui racchiude questi tre piani, che è Kafka. Se lei dovesse porre qualcuno su questa cima, che scrittore sarebbe?

Questa poetica che Cartarescu ha corrisponde anche alla stratificazione dei suoi libri, i suoi libri hanno questi tre piani. Il pensiero comune è che Kafka sia stato il più grande scrittore, quantomeno del Novecento, è davvero quello che è riuscito a coniugare il piacere della lettura, l’ironia, l’angoscia.. è difficile pensare a uno scrittore più grande di Kafka.

Sempre Cartarescu ha detto, poco fa, che “la mancanza di successo è la cosa più nobile per uno scrittore”. Questa è un’affermazione innovativa nella società attuale dove gli scrittori sono, generalmente, sempre più avidi di successo e di notorietà. Lei che ne pensa?

Beh è vero, e questo è legato al fatto che la letteratura sia diventata uno dei filoni del mercato. Allo scrittore per sopravvivere è richiesta una performance economica, o meglio una performance editoriale che produca degli utili; è  messo nella condizione di tentare in tutti i modi di procacciarsi il numero di lettori sufficienti ad ottenere quel risultato economico che gli consente di sopravvivere. Questo innesca un meccanismo deleterio che è quello di rispondere a un’aspettativa, il tentativo di capire cosa piacerebbe leggere alle persone, che è poi quello su cui si basa il marketing. Tutti noi tendiamo a rispondere all’aspettativa degli altri, è un istinto comune anche nei rapporti umani. Questo nello scrittore può, non necessariamente, determinare un abbassamento della qualità, perché nella letteratura il vero obbiettivo è deludere l’aspettativa, deludere il lettore, far crollare la sua visione del mondo. Quindi naturalmente quella di Cartarescu era una provocazione e quando la letteratura è, come lui dice, un “fiore nella miniera”, cioè quando tenta di farsi vedere per quello che è, allora sì che è una grande letteratura. Detto questo, ogni scrittore nel mondo da quando esiste il mercato ha il desiderio che il suo libro venda milione di copie.

Giulia Cozzi

Il Giornale dei Ragazzi del Premio Gregor von Rezzori

Firenze, 6 giugno 2016. A Palazzo Strozzi si apre la X edizione del Premio letterario Gregor von Rezzori, organizzato dalla Fondazione Santa Maddalena, con il contributo del Comune di Firenze e dell’Ente Cassa di Risparmio.

Noi ragazzi della terza E del Liceo classico Galileo di Firenze partecipiamo con il progetto Il Giornale dei Ragazzi, a cura di Isabella Di Nolfo. In veste di giornalisti vi racconteremo da queste pagine gli eventi che per tre giorni animeranno la città.

La nostra redazione è proprio nel cuore della manifestazione, a Palazzo Strozzi , nella sala dedicata a Fosco Maraini del Gabinetto Vieusseux, il più importante gabinetto scientifico letterario d’Europa, luogo nel quale hanno studiato grandi scrittori del calibro di Alessandro Manzoni e Fedor Dostoevskij . In quest’aura di magia letteraria ci muoviamo emozionati.

Alle 10 siamo tutti pronti. La tensione e l’emozione sono altissime. Lo scrittore Dany Lafferière, il primo a incontrare il pubblico, è arrivato, insieme al suo traduttore. Entrambi si preparano per la conferenza. Il francese del maestro risuona nella Balconata, dove hanno luogo gli incontri con gli scrittori. “Buongiorno a tutti, sono felice di essere qui oggi per il Festival degli Scrittori”.

Così comincia una delle manifestazioni più importanti per il mondo della letteratura a livello internazionale.

I ticchettii delle nostre tastiere saranno all’ordine del giorno, fino alla premiazione non abbandoneremo la concentrazione e l’impegno.

Buona lettura!

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