Prima dell’inizio della sua retrospettiva al Mic di Milano, in occasione del 5 Festival dei Beni Confiscati alle Mafie, noi del “Giornale dei ragazzi” abbiamo avuto modo di porre qualche domanda al regista e conduttore televisivo Pierfrancesco Diliberto, meglio noto come Pif. Col suo inconfondibile modo di fare, leggero (ma non superficiale!) e scanzonato, che gli ha permesso di realizzare e portare al successo un film che racconta dell’orrore della mafia con tono ironico e coinvolgente, il regista palermitano è stato disponibile a rispondere alle nostre domande, raccontando del tema della criminalità organizzata nella sua carriera artistica. Ciò che lo spinge e lo guida nelle sue scelte, sia in tv che sul grande schermo, è l’istinto, non certo la presunzione di insegnare qualcosa. “Non me lo potrei permettere, andavo malissimo a scuola”, ci ha confessato. L’approccio è più quello di denunciare, di raccontare qualcosa. A Pif è sembrato spontaneo trattare di un tema scottante come quello della mafia; è sembrato soprattutto doveroso capovolgere un detto della sua città natale: “la miglior parola è quella che non si dice”. La sua filosofia è racchiusa in una frase, sentita da un prete di Padova: “Io non so se riuscirò a cambiare questo mondo, ma di sicuro questo mondo non cambierà me”. E’ ciò che augura a tutti, a se stesso per primo: di riuscire a conciliare se stessi con la propria coscienza. La cosa fondamentale in questi tempi, in cui i mezzi (cellulari, social, etc…) sono a portata di tutti, è avere qualcosa da dire, avere un punto diverso dagli altri. Pensare prima a cosa dire, e dopo a come farlo. Dopo due film incentrati sulla mafia, l’artista ha ammesso la voglia di cambiare tematica, di raccontare anche altro, sebbene conservi il desiderio di fare un film sul maxi processo di Palermo (“un avvenimento storico, una vittoria incredibile per lo Stato”).
Pif non ha avuto né parenti né amici vittime di mafia o mafiosi: “il motivo per cui ho fatto due film sulla mafia… non lo so… se fossi stato di Bolzano probabilmente avrei fatto un film sulle vacche che fanno il latte”. La motivazione deriva quindi dalle origini, ma anche dalla consapevolezza che “per molto tempo si è vista una cosa e se n’è fatta un’altra, che erano pochi quelli che raccontavano ciò che succedeva in città”. Come mai La mafia uccide solo d’estate ha avuto così tanto successo? Probabilmente perché per la prima volta la criminalità viene vista dagli occhi di un ragazzino, da un’ottica completamente diversa. Se nessuno ci ha mai pensato prima a raccontarla in modo così originale, è – secondo lui – dovuto ad una questione generazionale (oltre che ad un po’ di incoscienza, necessaria per trattare così questo tema). In quanto palermitano, inoltre, si sentiva a maggior ragione autorizzato a farlo. Ciò che sta a cuore a Pif (tanto da essere un aspetto sottolineato anche dal suo documentario Un gelato per Saviano, dedicato all’amico e scrittore napoletano) è cogliere, mostrare il lato umano delle vittime, di coloro che sono stati uccisi perché si sono opposti. Evitare di mitizzarli, come si tende a fare. Pensarli come gente normale, simili a noi, come effettivamente sono stati. Evitare quindi di delegare la nostra responsabilità, evitare di poter dire “io non sono Falcone”. La loro grandezza sta proprio in questo: nel loro non essere eroi, nell’aver fatto qualcosa che possiamo fare noi tutti.
– Gabriele Pirri