Isabella Di Nolfo: pensando alle nuove generazioni
Intervista dell’8 giugno a Isabella di Nolfo, giornalista e ideatrice del Giornale dei Ragazzi
Cosa l’ha spinta a lavorare con i ragazzi, e di conseguenza a creare il progetto de ‘Il Giornale dei Ragazzi’?
A lavorare con i ragazzi mi ha spinto innanzitutto una grande passione per il mio lavoro. Io lavoro da tanti anni nei libri, nella cultura e con gli editori; so che l’Italia è un paese che fa fatica, perché tutti scrivono e pochi leggono, e per cercare di risolvere questo problema partendo dall’inizio bisogna lavorare con i ragazzi. Quando ho iniziato a lavorare con voi, l’ho fatto perché mi piaceva il vostro entusiasmo, la “purezza” dei vostri interessi, e soprattutto mi piace vedere che una persona pianta un seme e questo germoglia, e l’età in cui farlo, per quanto riguarda cultura e libri, è la vostra, terza e quarta liceo. Perché come dicevo oggi ai vostri compagni, in prima e in seconda siete impegnati a fare il salto, a diventare adulti e rinnovarvi come persone, in quinta giustamente avete l’esame di maturità in testa, mentre in terza e in quarta siete più sensibili, più recettivi, ciascuno di voi ha un germoglio interiore che si vede, basta gettare dei semi e ciascuno trova la sua strada. Infatti questa vostra esperienza me lo ha mostrato ancora di più, perché vi ho visto molto scettici all’inizio e poi un bel gruppone di dieci, quindici si è invece appassionato all’iniziativa.
A che età ha avuto l’“illuminazione” di diventare giornalista?
In realtà non sono diventata subito giornalista, io sono diventata prima ufficio stampa, che è un altro mestiere, è l’altra faccia della medaglia, è la persona che fa da tramite con i giornalisti, è presente in tutti i mestieri ma è particolarmente bello nel campo della cultura, perché sei la persona che da un autore, da un libro o da una casa editrice cerca di tirare fuori il senso, lo trasmette ai giornalisti che poi lo trasmettono, a loro volta, ai lettori. È la figura intermedia, per farlo al meglio ho deciso di sostenere un esame, e di iscrivermi all’ordine dei giornalisti, perché così sono alla pari con i miei colleghi, anche se in teoria non c’è nessuna legge che ti obbliga, se non nella pubblica amministrazione. Ho sempre avuto l’idea di lavorare nella cultura. Sono una persona estroversa e mi piace chiacchierare con la gente, perciò avrei voluto fare un lavoro di contatto con le persone, e poi perché mi piacciono i libri, le mostre e la musica. Non avevo ben chiaro che lavoro fare, per esempio l’ufficio stampa è un lavoro che in pochi conoscono, è un lavoro dietro le quinte e in tantissimi mi chiedono cosa sia, cosa significhi e si scopre solamente facendolo. A me è capitato per caso, perché una piccola casa editrice di Firenze, la Nardini, cercava un ufficio stampa, io ho preso contatto e da lì siamo cresciuti insieme, visto che non lo avevano mai avuto. Da lì è cominciata la mia carriera prima in Giunti, poi in Mondadori e in Electa.
La sua carriera ha inizio a Firenze, per poi spostarsi a Milano, sede delle grandi case editrici, giusto?
Esatto. In realtà avevo fatto un’incursione in un altro campo più imprenditoriale, quello del manager, e dopo un anno, anche meno, ho capito subito che non sarebbe stato il mio lavoro. Bisogna assolutamente fare le prove, così poi si scopre cosa si vuole fare veramente.
Cosa l’ha spinta a tornare a Firenze per collaborare con il premio G. von Rezzori?
Il premio von Rezzori lo conosco da tanti anni, è un premio che va avanti da dieci anni e alla seconda edizione avevo già collaborato con la Davis e Franceschini per fare l’ufficio stampa, lo seguo da tantissimi anni, conosco la Baronessa, spesso conosco gli scrittori, e quasi tutti i giurati, anche se ogni tanto cambiano, è un’iniziativa che seguo anche perché è a livello altissimo. Questo progetto de Il Giornale dei Ragazzi è iniziato a Milano, dove c’è una grandissima manifestazione che si chiama Books city, che coinvolge tutta la città per quattro giorni e gli eventi che ruotano intorno ai libri sono quasi mille. Ogni luogo della città, ogni palazzo, le scuole, le librerie e i monumenti storici sono invasi da scrittori e da presentazioni di libri o comunque discorsi intorno ad essi. Mi era venuta l’idea di coinvolgere i ragazzi, rendendoli proprio protagonisti, e la cosa ha avuto subito tantissimo successo, i ragazzi di Milano fanno delle scelte, visto che ci sono centinaia di eventi da coprire, e quella è la cosa più interessante, vedere proprio cosa piace a voi, anche perché chi lavora nel settore va ormai avanti con il pilota automatico, e quindi ognuno racconta sempre le stesse cose, gli stessi eventi, invece prendere una classe nuova che magari non conosce il premio e vedere cosa piace loro, è un esperimento anche per i “grandi”. Questa cosa a Milano ha avuto abbastanza successo, è piaciuta a tutti; i ragazzi si sono sempre guadagnati tanti complimenti, tante stime esattamente come voi, di conseguenza Alba Donati, presidente del gabinetto G. P. Vieusseux, mi ha chiamato per chiedermi se potevo fare anche con voi questo progetto. Risposi entusiasta di sì, anche perché Firenze è una delle mie tre città.
Una di queste tre città è Firenze, l’altra è Milano e l’ultima?
L’altra è Padova, dove ho fatto quasi tutto il liceo scientifico. L’ultimo anno lo feci al Castelnuovo di Firenze, che tra l’altro è stato anche traumatico visto che mi ci hanno trasferito i genitori a dicembre, quindi a quinta inoltrata, già ero triste per il fatto che lasciavo i miei compagni di Liceo.
Crede che il premio, nei prossimi anni riuscirà a farsi conoscere ancora di più?
Te pensi che non sia tanto conosciuto?
Per certe cerchie di persone sì, ma non è esteso a tutte.
Hai ragione, per questo hai ragione, e la dimostrazione è data dal pubblico che avete visto, alla Cappella de’ Pazzi c’era tanta gente, stasera ci sarà tanta gente, però agli incontri minori, la risposta del pubblico non è stata tantissima. Non so se dipende dal Comune o da che cosa, perché i giornali, tutti, ne hanno parlato tantissimo; anche sui social se ne è parlato, ciò nonostante, riflettevamo ieri con Alba Donati, la notte bianca è piena di gente e a questo premio con degli scrittori MOLTO più importanti, no. Come mai? È colpa del Comune? No, in parte ha finanziato, sostiene comunque la fondazione Santa Maddalena, ha coinvolto le scuole con il premio dei giovani lettori, che è partito l’anno scorso e coinvolge cento ragazzi, ha reso partecipe le scuole anche con il progetto del giornale, con voi, che comunque siete ventisei. Non so se funzionerebbe, come dicevi te, di fare anche manifesti, guarda un po’ voi, vi siete incuriositi solo quando avete avuto l’opportunità di chiacchierare direttamente con gli autori, quella è stata la molla, perché avete incontrato persone che avevano qualcosa da dire, soprattutto se si è pubblicati in trenta paesi, non si diventa conosciuti in tutto il mondo se davvero non si ha un minimo di spessore. Quando ci sono queste persone tu la senti l’energia che ti passa, ed è quello il momento in cui ti incuriosisci, non solo degli scrittori ma anche di altri. La molla che fa scattare l’interesse, è l’esperienza. Anche voi avete trovato difficoltà, tra la vostra ricchezza interiori, la vostra curiosità a fare domande e la difficoltà a metterle su un foglio scritto. Quindi incontrare qualcuno che questa difficoltà ha imparato a superarla, e sa usare la parola per comunicare le infinite sfumature di esperienze di vita, è quello che fa scattare il meccanismo.
Ripeterà il prossimo anno l’esperienza all’interno del Premio?
Certo, siete stati bravissimo quindi sì. Sono esperienze che vanno condivise, voi l’avete già fatta e secondo me l’anno prossimo può fare un’altra classe, come è successo a Milano quelli che l’hanno fatta l’anno precedente sono poi tornati lo stesso l’anno successivo. Prima di Milano l’avevo fatto in piccolo anche a Verona, forse con una classe troppo “piccola”, sempre quasi tutti molto scettici all’inizio, non tutti perché la media non è assoluta, e poi tutti, invece, trovate qualcosa che vi illumina, che vi fa scattare. All’inizio molti mi chiedono quanto si debba stare, se si può andare via prima e poi sempre si forma un gruppo di fedelissimi che copre tutto il periodo, molto più a lungo di quanto imponga la scuola, c’è un gruppo che è stato qui dalle nove e mezzo di mattina, siete ancora qui, venite stasera e addirittura venite anche domani, che è un giorno fuori dalla programmazione. Questo qualcosa vuol dire, che vi mettete in gioco, e quando vi mettete in gioco, il gioco si fa più interessante, però se uno non lo fa non diventa interessante. L’idea di darvi un ruolo, che è banale in sé, ho visto che è quello che vi fa superare alcune timidezze, anche perché siete osservati da tutti quindi vi sentite più coinvolti e di conseguenza date del vostro meglio che alla vostra età è sempre moltissimo.
Youness Mattia Loutfi
Dany Laferrière: uomo di grande carisma
Presentazione del libro di Dany Laferrière “Tutto si muove intorno a me”, introduce Simona Fortuna
Il giorno 6 Giugno 2016 si è svolta la presentazione del libro “Tutto si muove intorno a me” di Dany Laferrière, introdotta da Simone Fortuna.
“Il cemento degli edifici più importanti, che non vibra, è quello che crolla prima”. Con questa frase Simone Fortuna apre la presentazione, continua dicendo che il ruolo dello scrittore è di raccontare i fatti, sperando che dietro il libro si pongano interrogativi. Laferrière in base a ciò che viene detto precedentemente, afferma che non sta allo scrittore dire se c’è o meno una causa universale ma spetta al lettore. L’obbiettivo di Laferrière è quello di dare una testimonianza diretta, infatti per lui era importante essere considerato come l’unico a scrivere nel momento esatto del terremoto.
In seguito il nipote chiede a Laferrière di non scrivere il libro, poiché è la generazione del giovane quella più colpita dal terremoto. Laferrière però si sente chiamato in causa, e citando Omero: “Dio manda sventure perché gli scrittori possano scrivere i canti” decide di continuare.
Alla domanda: “perché ha diviso il libro in cosi tanti capitoli?” lo scrittore risponde mettendo sullo stesso piano le esplosioni del terremoto con i capitoli, quindi un’esplosione di capitoli, considerando anche che il terremoto non riguarda solo lo scrittore ma anche tutte le persone coinvolte, da qui tante altre storie quante quelle delle persone. Inoltre “ironizzando”, tende a sottolineare l’ “effervescenza” della città la quale anche se apparentemente morta ancora trema, quindi è viva. La presentazione si conclude con una bellissima considerazione su Haiti da parte di Laferrière. Spiega che in seguito al terremoto il suo rapporto con la madre terra non sarebbe assolutamente potuto cambiare, perché quello rimarrà per sempre, ma non sa se ama Haiti di più o di meno anche perché dopo il verbo amare non si deve aggiungere altro. Amare “di più” o “di meno” non è vero amore.
Inoltre ci tiene a sottolineare che negli anni successivi sono stati destinati ad Haiti miliardi per una ricostruzione “fisica” della città, quando la vera ricostruzione sarebbe dovuta essere quella “umana”, infatti i mass media si sono scordati di quello che è successo alla sua terra.
La città e gli abitanti hanno resistito da soli, nessuno si aspettava o si aspetta soldi dall’esterno.
Cosimo Iacopozzi, Vittoria Cima, Selene Murittu e Youness Mattia Loutfi
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Storie di realtà americana
Intervista lampo a Carolina Mischi, una delle vincitrici
Alla fine della cerimonia di premiazione, siamo risusciti, nonostante la ressa, ad intervistare Carolina Mischi, vincitrice del Premio Gregor von Rezzori Giovani Lettori per la recensione di bark, di Lorrie Moore. Alba Donati, presidente del gabinetto Vieusseux, nel conferirle il premio, l’ha elogiata esclamando che la sua recensione era così ben fatta che leggerne un piccolo estratto, come era stato fatto per gli altri vincitori, non le avrebbe per niente reso giustizia.
Dal momento che sei riuscita ad ottenere l’onorificenza di essere ritenuta la migliore recensitrice di questa edizione, quanto ti sei fatta prendere dal libro e cosa ti ha lasciato a livello introspettivo?
CM: All’inizio è stato difficile immergersi nel libro, perché è appunto una raccolta di racconti e non fai in tempo ad immedesimarti in un personaggio che già il racconto è finito, senza una vera conclusione, però poi, rileggendoli, poiché a primo impatto non riuscivo a ricavarne molto, riesci a vederli da una prospettiva diversa e sono riuscita a captare un realismo molto più approfondito: il romanzo rispecchia la realtà americana molto più di quanto ci viene mostrato dai film, che non sono assolutamente realistici. Da una parte, ha un lato ironico, però da un altro è totalmente terrificante. È decisamente controverso.
Come ti sei sentita a vincere?
CM: Beh, innanzitutto, è stato molto imbarazzante, ma alla fine è stato bello ed emozionante. Non me l’aspettavo proprio!
Per concludere, quale elemento di originalità, anche stilistica, può aver distinto la tua recensione dalle altre?
CM: Io non ho letto le altre recensioni, se dovessi dire qualcosa attribuirei la sua originalità al fatto che l’ho scritta di getto, senza rileggerla troppe volte. Una sera mi sono messa lì e mi sono detta che dovevo scrivere la recensione, quindi l’ho fatto. In più mi sono soffermata sulle emozioni che mi ha trasmesso.
Purtroppo non abbiamo potuto intervistare gli altri vincitori perché non li abbiamo reperiti.
Carlotta Baglivi, Federico Balzani, Giulia Di Giorgio
La perdita del pensiero critico
Intervista a Ernesto Ferrero, direttore editoriale del Salone Internazionale del Libro di Torino
In un momento come questo e all’interno della società attuale, nella quale meno si pensa meglio è, ritiene che la promozione della letteratura e della cultura possa essere funzionale a preservare e ad incentivare il pensiero critico?
Questo è proprio il discorso che farò tra poco alla Premiazione in Palazzo Vecchio. Il problema è esattamente questo: mi sembra che viviamo in un’epoca in cui l’esercizio del pensiero critico e in generale della conoscenza non è molto pregiato. Siamo appiattiti in un presente precario, confuso e affannato, prigioniero di se stesso. Anche l’esercizio della memoria, non nostalgica ma critica, funzionale a cavar fuori dal passato elementi che servono alle generazioni di oggi, non è intrapreso neanche nelle scuole. Il passato è tutto messo sullo stesso piano, la Prima Guerra Mondiale così come i Faraoni..questo è uno dei tanti aspetti del problema. La stessa narrativa ci propone dei modelli di intrattenimento, spesso anche molto buoni. Per carità, questo va benissimo, ma come tutte le diete non possiamo solo nutrirci di intrattenimento. È ovvio che la lettura di un certo genere richieda un minimo di fatica, ma poco tempo fa riflettevo che nel campo della nostra corporalità siamo tutti disposti a sforzarci, facendo sacrifici per il nostro fisico, andando in palestra, facendo jogging, fatica che è considerata sana e produttiva. La stessa fatica applicata alla lettura invece no. Ci sono ricerche che dimostrano che la lettura è fondamentale nello sviluppo dei circuiti neuronali dei bambini e nel ritardo del degrado neuronale degli anziani. La lettura dovrebbe essere gestita dal Ministero della Sanità! La cosa curiosa è appunto questo rifiuto di una lettura critica preferendo generi che confermano quello che già sappiamo. Quindi iniziative come questa vanno nella direzione giusta, ma purtroppo non bastano. Noi, al Salone Internazionale del Libro di Torino, abbiamo investito molto sui bambini. C’è un bellissimo progetto che si chiama “Nati per leggere” che mette insieme bibliotecari e pediatri proprio per incentivare le famiglie e dire “Leggete ai vostri figli!”. Per quanto riguarda i genitori siamo sempre intorno al problema “Chi educherà gli educatori?”. Chi educherà i genitori ad essere genitori consapevoli che non possono cavarsela solo regalando telefonini e dando una paghetta? Poi ci lamentiamo se i ragazzi, non tutti ovviamente, sono quello che sono.. certo, se non investiamo niente su di loro!
Lei è Direttore editoriale del Salone Internazionale del Libro di Torino dal 1998: in questi anni ha potuto notare cambiamenti nella risposta del pubblico, in particolare nel periodo di crisi economica?
Come succede spesso in situazioni storiche come quella che stiamo vivendo si è creata una forbice: da una parte c’è un’elite sempre più preparata e avvertita, dall’altra c’è una massa brancolante nel nulla. A Torino c’è invece una specie di mistero gaudioso perché ogni anno noi registriamo un numero incredibile di affluenze, come duecentosettantamila passaggi, un pubblico di una competenza e di una sensibilità pazzesche! Le cito l’ultimo caso: il lunedì pomeriggio di quest’anno erano presenti trecentocinquanta persone ad ascoltare una lezione sulla matematica degli Arabi. Il paradosso italiano è che i lettori “forti” italiani sono più forti dei lettori “forti” degli altri paesi. Bisogna allargare questo cerchio di eventi perchè il pubblico risponde, ma manca un segnale forte dal paese.
Secondo lei quale innovazioni si potrebbero applicare al Premio Gregor Von Rezzori, che già è molto prestigioso, per renderlo ancor più conosciuto e partecipato?
Quello che ha fatto quest’anno, cioè coinvolgere i giovani. E per fare questo la giuria deve stare attenta a scegliere dei libri che siano capaci di coinvolgere ed interessare. È un discorso difficile da fare perchè si tratta di unire la sensibilità di chi sceglie e la sensibilità dei ragazzi, che la maggior parte delle volte è molto diversa, come è ovvio che sia. A proposito di questo c’è molto da riflettere.
Giulia Cozzi
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I giovani: attori nel mondo della letteratura
Brevissima intervista al sindaco di Firenze, Dario Nardella, presente alla cerimonia di premiazione del X Festival degli Scrittori-Premio Gregor von Rezzori
Cosa pensa delle due iniziative volte al coinvolgimento dei ragazzi nell’ambito del premio Gregor von Rezzori e della letteratura straniera contemporanea?
Trovo che entrambe le iniziative siano molto interessanti, ma soprattutto utili. Il coinvolgimento dei ragazzi in questo contesto internazionale è un modo per permettere loro di confrontarsi con i grandi autori, di conoscerli, di amarli e ovviamente di misurarsi ad un livello più sofisticato. In questo modo i giovani non si limitano ad essere spettatori passivi, ma bensì assumono il ruolo di attori in un progetto che si rivolge specialmente alle nuove generazioni. Il coinvolgimento delle scuole e dei licei fiorentini permette infatti di invitare un numero di ragazzi sempre maggiore alla lettura. Credo che proprio la lettura sia l’esercizio più affascinante che si possa praticare ad ogni età, a cominciare da quando si è piccoli.
In vista della prossima edizione del premio, il comune ha già pensato a nuove iniziative che potrebbero permettere di estendere la visibilità dell’evento all’interno della città di Firenze?
Sicuramente ci sono moltissimi aspetti che saranno oggetto di miglioramento. Prima di tutto ci impegneremo affinché la partecipazione a questo evento possa coinvolgere molte più scuole. Cercheremo inoltre di invitare una fascia sempre più vasta di popolazione a prendere parte a incontri culturali e letterari come il “Festival degli Scrittori”. Uno dei nostri obiettivi più grandi è quello di permettere al premio von Rezzori di diventare un’occasione “popolare” per i cittadini di Firenze, evitando dunque che rimanga un evento di nicchia, destinato solamente ad un’élite di lettori colti.
Elena Gensini e Youness Mattia Loutfi
Siamo tutti sulla stessa barca: bisogna imparare a condividere
Intervista a Raffaele Palumbo
Stamattina, dopo la breve conferenza in onore del libro di Dinaw Mengestu, dove egli stesso è intervenuto, abbiamo chiesto al giornalista Raffaele Palumbo di poterci rilasciare un’intervista.
Che cosa le ha lasciato questo libro a livello personale e come si è sentito una volta terminata la lettura?
RP: La cosa più bella è questo necessario incontro tra persone che noi amiamo chiamare ‘diversi’, dimenticando che siamo tutti un evento unico nella storia dell’umanità e che siamo tutti diversi per definizione. E anche la difficoltà di costruire una storia come dire d’ “amore” tra persone di diversa provenienza, diversa cultura, diverso status economico, diverso modo di stare al mondo, diverse religioni, diverso modo di mangiare, di vestire, ecc… E anche attraverso quella storia d’amore noi per certi versi –come dire- ci rendiamo conto della inevitabilità [scandisce ampiamente] dello stare insieme. Noi cerchiamo la separazione, i muri, gli inni nazionali, i passaporti, i fili spinati e non ci rendiamo conto; immaginiamoci su una barca e su questa barca c’è quello del ponte superiore che esibisce il passaporto per passare al ponte inferiore: allora se la vedete così vi rendete conto e tutto ciò vi fa sorridere poiché ci accorgiamo di quanto sia ridicolo. Noi non abbiamo un’altra scelta che non sia condividere questo pianeta, perché non ne abbiamo altri e questa in realtà è una grande fortuna; e questo libro ci ricorda che il mescolarsi, il muoversi è ciò che fa girare il mondo. Paradossalmente, potremmo dire che se le persone smettessero di muoversi il mondo smetterebbe di girare e questo è una delle cose meravigliose che questo libro ci racconta.
Come si è avvicinato al mondo del giornalismo?
RP: La cosa che ci salva è raccontarci le storie. Ciò che affossa il giornalismo è il non raccontarle. Noi non raccontiamo più le storie, raccontiamo i numeri: “morte 32 persone nel canale di Sicilia…” abbiamo tolto l’umanità alle persone. Questo romanzo ci dà la possibilità di raccontare delle storie, narrando di persone, mentre noi trattiamo di numeri, stereotipi, cose astratte. Un grande narratore, un grande giornalista che si chiamava Capuceschi diceva –parlando di giornalisti- che “il buon giornalista non può essere cinico, perché non è adatto a questo mestiere, perché non è possibile raccontare la vicenda di qualcuno senza aver vissuto un pezzetto della sua storia”. Allora il raccontare le storie della gente, delle persone, belle, brutte, è l’unica strada di salvezza ed è l’unica strada per cercare di stare insieme, di generare comunità e per questo comunicare nel senso etimologico, cioè mettere in comune e non vivere accoltellandosi alle spalle.
Nel singolo, nessuno direbbe mai ‘io discrimino, io sono razzista’, però quanto ognuno di noi, vedendo l’Africa disegnata così drasticamente ridotta sulla cartina, coi suoi stati tracciati col righello, può davvero considerarsi ‘pulito’?
RP: Puliti poco. Nel senso che nessuno di noi è pulito finché non ci guardiamo allo specchio. Vediamo una tragedia e continuiamo la nostra vita voltandogli le spalle, finché non rinunciamo a qualcosa, perché vogliamo la macchina da tremila di cilindrata, il petrolio, mangiare otto volte al giorno, vogliamo tutto in sostanza. Così non si può sentire pulito colui che disegna la cartina ‘gerarchica’ né possiamo noi che andiamo a fare la spesa comprando le banane ad un prezzo ignominiosamente basso, perché vogliamo mangiare cinquanta banane al giorno, non ce ne basta una e poi muoiono tutti di infarto a cinquant’anni per le cosiddette ‘malattie del benessere’. Tutto torna lì: ognuno deve portare avanti la propria rivoluzione individuale, lì sta il cambiamento. Terzani diceva: “Il guru è dentro di te. La rivoluzione è dentro di te.” Se impariamo a stare al mondo in modo tale da essere ogni giorno consapevoli del fatto che abbiamo rispettato questo pianeta, che abbiamo vissuto in modo sostenibile, rispettando i nostri simili –vicini o lontani che siano- allora abbiamo fatto la rivoluzione dentro di noi. Se invece hai inquinato, iperconsumato, il Pianeta alla fine ne risentirà: perché è un sistema chiuso. Niente si crea, niente si distrugge. E’ un gioco a somma zero, se io mangio dieci, qualcun altro mangerà uno. E ciò avviene non perché non ci siano risorse, ma perché abbiamo creato un sistema iniquo. Abbiamo la possibilità di produrre genere alimentari per il doppio della popolazione mondiale, ma al contempo un miliardo di persone muore di fame. Per cui ciascuno faccia la propria parte.”
Carlotta Baglivi, Federico Balzani
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Un libro “sotto mentite spoglie”
Tutti i nostri nomi raccontato dai recensori del Liceo Capponi
In questo mattino di Giugno, il giorno del canto del cigno del ‘Premio von Rezzori’, abbiamo avuto un’amabile conversazione con delle ragazze del Liceo Capponi, che sono state selezionate per recensire il libro Tutti i nostri nomi di Dinaw Mengestu. Il romanzo è un abilissimo intreccio tra due storie, inconciliabili temporalmente ma inevitabilmente connesse: all’inizio della vicenda, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, si vedono due giovani ugandesi – Isaac e Langston- che si battono per il cambiamento nel loro paese, poi, durante la narrazione, abbiamo un’ellissi temporale (finemente inserita tra un capitolo e l’altro, cambiando repentinamente i punti di vista), alla fine della quale ritroviamo Langston che, separandosi dalla causa di Isaac, si è trasferito negli USA ed ha intrapreso una relazione con Helen, narratrice degli eventi.
Questa relazione, che stordisce leggermente per la repentinità con la quale avviene, risulta a tratti vuota –racconta una delle ragazze- tratta di una donna che ha scelto Langston più per paura della solitudine che non per purezza di sentimento. Così Helen si renderà conto che il muro invalicabile formato dai segreti di Langston le rende impossibile continuare ad amarlo come vorrebbe; questo passaggio è stato sottolineato molto dai lettori in quanto, in esso stesso, quasi si riesce a percepire il dolore e l’ansia che traspaiono da questa tormentosa, quanto anche tormentata, relazione. Segno di ineluttabile maestria dell’autore.
Il libro però si presenta ‘sotto mentite spoglie’, perifrasi scelta da una delle recensitrici, la quale ci fa notare che esso si introduce al recensore come una lettura tranquilla, ma è un abisso di temi profondissimi, una nassa che ti cattura e risucchia in un vortice di parole e concetti, intrigante quanto anche spiazzante e sincero. Inoltre, molti dei lettori avevano immaginato che lo scrittore avesse vissuto in prima persona gli eventi narrati, che avesse provato quelle emozioni potentissime e che fosse, in qualche modo, un po’ all’interno di Isaac stesso. Invece, come egli stesso ci ha rivelato durante la conferenza di questa mattina, il romanzo è basato su eventi che egli ha appreso durante la sua straordinaria carriera di giornalista da dei rivoluzionari quindicenni nel Darfur. Ovviamente, si è preso delle licenze poetiche.
Nonostante le tematiche fortemente delicate, lo scrittore (attraverso Langston) “cerca sempre di trovare una tranquillità, anche nel caos” sentenzia una delle ospiti, descrivendo le tipiche azioni del personaggio: egli legge continuamente anche quando la situazione sembra precipitare, o anche solo nei momenti di noia. E così che ‘Dickens’ diventa uno dei numerosi appellativi affibbiati al giovane, data la sua parlata ottocentesca, derivatagli dalla lettura continua di questi romanzi.
Un’altra caratteristica di Mengestu, spiega complimentandosi una delle ragazze, è che “si sa concentrare sugli spetti fondamentali dei personaggi”, nel senso che non si dilunga in inutili e pedanti descrizioni fisiche ma omaggia i singoli personaggi con ampie disgressioni psicologiche, come per esempio nel personaggio di Helen della quale non conosciamo le caratteristiche fisiche, ma di cui certamente conosciamo ogni pensiero.
Unica nota dolente, che come un filo conduttore si è profilata durante tutto il premio, pare essere l’organizzazione del premio ‘Giovani Lettori’ che, non poche volte, a quasi portato i recensori a rinunciare per via delle continue difficoltà amministrative. Ci auguriamo che in futuro questi problemi siano risolti, così da far in modo che questo arduo compito risulti più facile per i recensori del domani.
Carlotta Baglivi, Giulia di Giorgio, Federico Balzani e Tommaso Becattini
La letteratura fine a se stessa?
Intervista a Andrea Bajani
Lei in un’intervista ha detto che ciò che manca al motore dei nostri giorni nostri è che alla letteratura venga dato uno spazio sempre più marginale ed esclusivamente di intrattenimento e di colore. Pensa che eventi come questo, al quale partecipano anche molti ragazzi, sia un modo per riempire questo pezzo mancante?
Il problema della letteratura è che ha bisogno di spazio. È come se le fosse riservato uno spazio piccolissimo che deve essere inserito tra i mille impegni della giornata. Iniziative come queste, ovvero i festival e gli eventi letterari, sono da un lato meritevoli perché attirano l’attenzione su qualcosa che ha bisogno di attenzione, ma allo stesso tempo vanno ad inserirsi in un “mercato” dell’intrattenimento. Dell’intrattenimento di alto livello, naturalmente, ma fanno sempre parte del “Cosa facciamo stasera? Andiamo al cinema, a prendere un cocktail, a prendere un aperitivo o a vedere uno scrittore che parla?”.
Quindi il rischio di questi eventi è che diventino una sorta di “spettacolarizzazione”, che diventino uno dei tanti canali della televisione. Ovviamente il punto, e in particolare nel Premio Gregor von Rezzori è questo che conta, è la qualità. Questo è un festival che garantisce la non commercialità di ciò che propone. Non vengono premiati gli autori che noi siamo abituati a vedere in televisione, ma qualcosa di diverso. Quindi per forza di cosa chi viene qua deve crearsi un vuoto per entrare in contatto con delle esperienze letterarie di altissimo livello.
In un’altra intervista lei ha detto che il rapporto tra dei ragazzi con la letteratura è viziato da un’impostazione scolastica, giustamente a mio parere. Se lei dovesse spiegare ad un ragazzo che la letteratura non è solo quella che noi studiamo e da cui dobbiamo imparare che però percepiamo distante da noi, ma può appartenerci e può essere un mezzo intimo per analizzare la nostra personalità, come lo spiegherebbe?
Prima di tutto bisogna dire che leggere non è obbligatorio. Io non penso che la letteratura sia l’unico mezzo per farsi delle domande o per raggiungere chissà quale consapevolezza di sé, ce ne sono moltissime: quindi prima di tutto bisogna sgomberare il campo dall’equivoco che se non si legge siamo superficiali. Ci sono persone che non hanno mai aperto un libro ma che hanno una profondità assoluta: il punto è fare dei pensieri grandi. In secondo luogo, penso che la letteratura e l’adolescenza siano due luoghi molto simili. Sono dei luoghi in cui ci si trova ad avere a che fare con delle enormi contraddizioni, con le emozioni dai segni più opposti, dall’allegria alla depressione. Credo che si possa dire solo questo ad un ragazzo. Ed un ragazzo ha tutto il diritto di poter essere affascinato da questo luogo, o di dirsi “basto io”. Quanto alla scuola, non credo che esista nessuna ricetta per far venir voglia ad un ragazzo di leggere. L’unica cosa che si può passare ad una persona è l’effetto che fa a te. Prendiamo due bambini che giocano, un bambino vuole il gioco dell’altro: ma tendenzialmente non vuole solo il gioco dell’altro, ma vuole gli occhi che ha l’altro bambino quando gioca. Quindi l’unica cosa che si può tentare è un contagio. Ci sono insegnanti noiosissimi, ma che hanno una tale passione per ciò che insegnano, che magari può passare a uno o due dei suoi studenti. Questo è quello che conta, non solo con gli insegnanti ma anche con i genitori e i figli: il fatto di aver davanti qualcuno vero.
Parlando di Cartarescu, lo scrittore nella conferenza ha descritto il suo tempio della letteratura: al primo piano ha posto la narrativa, al secondo la poesia e al terzo le visioni. In cima a questo tempio Mircea ha posto lo scrittore che per lui racchiude questi tre piani, che è Kafka. Se lei dovesse porre qualcuno su questa cima, che scrittore sarebbe?
Questa poetica che Cartarescu ha corrisponde anche alla stratificazione dei suoi libri, i suoi libri hanno questi tre piani. Il pensiero comune è che Kafka sia stato il più grande scrittore, quantomeno del Novecento, è davvero quello che è riuscito a coniugare il piacere della lettura, l’ironia, l’angoscia.. è difficile pensare a uno scrittore più grande di Kafka.
Sempre Cartarescu ha detto, poco fa, che “la mancanza di successo è la cosa più nobile per uno scrittore”. Questa è un’affermazione innovativa nella società attuale dove gli scrittori sono, generalmente, sempre più avidi di successo e di notorietà. Lei che ne pensa?
Beh è vero, e questo è legato al fatto che la letteratura sia diventata uno dei filoni del mercato. Allo scrittore per sopravvivere è richiesta una performance economica, o meglio una performance editoriale che produca degli utili; è messo nella condizione di tentare in tutti i modi di procacciarsi il numero di lettori sufficienti ad ottenere quel risultato economico che gli consente di sopravvivere. Questo innesca un meccanismo deleterio che è quello di rispondere a un’aspettativa, il tentativo di capire cosa piacerebbe leggere alle persone, che è poi quello su cui si basa il marketing. Tutti noi tendiamo a rispondere all’aspettativa degli altri, è un istinto comune anche nei rapporti umani. Questo nello scrittore può, non necessariamente, determinare un abbassamento della qualità, perché nella letteratura il vero obbiettivo è deludere l’aspettativa, deludere il lettore, far crollare la sua visione del mondo. Quindi naturalmente quella di Cartarescu era una provocazione e quando la letteratura è, come lui dice, un “fiore nella miniera”, cioè quando tenta di farsi vedere per quello che è, allora sì che è una grande letteratura. Detto questo, ogni scrittore nel mondo da quando esiste il mercato ha il desiderio che il suo libro venda milione di copie.
Giulia Cozzi
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